1968: Mi Chiamavano “Spaghetti”
Galleggiai sulla scia schiumosa e candida del transatlantico dei sogni
Gioia
adolescente appena sbarcata alla scoperta di tutto
E cominciai a paragonare quel
tutto alle dolci albe
Delle mie terre verdi nel
cuore
Che lasciai con sventolate di
ricamati stendardi da taschino
Mi ci asciugai le lagrime e
poi il sudore;
arrivammo e non c’erano i
boccioli di pesco per il maestro
Ora sul nuovo porto
Non c’erano i muggiti che
sapevano della campagna di nonna
Non c’erano le carezze dei
venti nostrani che mi riempivano i polmoni di trebbiatura
Il vento aggressivo e pungente
di New York mi schiaffeggio’ incessante nel mio nuovo paesaggio di cemento, che
ci prese a bersaglio ma che mai riusci’ a centrarci...
Cosi’ mio padre comincio’ il
nuovo sudore che spalmava come amara marmellata quotidiana sul pane insapore
nella cassetta di sogni incompresi
Ma la radice del partigiano e’
una dei forti
Soffrivamo nel disperato
silenzio e nel continuo abbozzare di chi ce la deve fare
Le prime lezioni le
passeggiate nel Bowery
Le botte, le manette del
subway e il Vietnam fuori e dentro
Le rivolte violente e fughe da
manganelli oppressivi
E sorvolavo scontento le nubi
artificiali, fumogene, della mia nuova realta’
L’opportunita’ difficile a
vedere anche nei giorni di volatile gioia
Il soprannome Spaghetti quel
giorno, nelle vecchie aule di razzismo e incomprensione,
riverbero’ pungente nella
melma del mio nuovo oceano
studiavo, soffrivo, lavoravo,
soffrivo, lavoravo, studiavo
lavapiatti, carpentiere,
muratore, venditore, carrozziere, cameriere, studente
non vedevo sorrisi e non capii che forse si dovevano prender da soli
questo self-service sociale mi
colpi’ a mitraglia e ferendomi, mi fece bene
comiciai a costruire il mio
scudo
entrando apprendista nel
corral di cavalli e cavalieri selvaggi;
e tra la polvere, i calci e la
muffa di coloniasmi rimasi a cavallo; ritrovai il coraggio del partigiano che
m’insegno’mio padre; la nostra e’ una radice di forti
spostatevi che mi faccio
avanti, la sella fatta a mano resiste e trionfa,
cosi’ al galoppo sfrenato ma determinato
programmai il cuore a giornata
diventai subdolo e fluido
camaleonte
il freddo d’inverno non pentetrava
piu; galoppavo sicuro
lavoravo, studiavo, soffrivo,
lavoravo, studiavo, combattevo con arsenale di lingue, esperienze e sudori e
cominciai a rivedermi piu’ forte
e nelle albe dei grattacieli
coperti come visione in aliante librata su fumi di fabbrica e libri, rividi
contento le terre verdi lasciate dai ricamati stendardi da taschino.
Metamorfosi...
Non mi chiamano piu’
“spaghetti” nelle nuove aule di razzismo e incomprensione
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